L’occhio di Taranto (Un anno fa sul Corriere del Mezzogiorno)

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Per me, barese, Taranto è un occhio nel quale si specchia tutto il sud che non ce l’ha fatta a diventare nord. In quell’occhio che vorrebbe chiudersi su se stesso per nascondere al Mediterraneo la pena del fumo che s’innalza come una grande lacrima grigia contro il blu carnoso e sensuale del cielo sopra il mare Jonio. Passeggio per Taranto Vecchia, dove amici mi ospitano per degli incontri tra scrittori. E prendo un caffè. L’anziana barista è cordiale. Ha un accento chiuso, quello dell’isola tarantina, di Taranto vecchia, di questa Medina dove t’aspetti di incontrare negromanti e demoni, aedi ciechi e filosofi geometri. E invece, una barista, al tramonto, chiusa nel suo vecchio e spoglio bar dal quale non s’allontana mai, nemmeno per dormire. Perché dorme nel retrobottega: casa e lavoro, lavoro è casa. ‘Che si dice, signora?’. La donna, abbrustolita dagli anni vicino al mare, dalle domeniche sullo Jonio, alza le spalle un po’ sconsolata e guarda fuori, verso il porto. ‘Taranto’, sibila. Non aggiungerebbe altro, se io non fossi insistente. Taranto vuol dire tutto e niente. O forse vuol dire complessità, rimorso e rimozione. ‘I turisti, ci sono?’. La donna annuisce. ‘Ma non spendono. Vengono pochi, guardano, prendono il caffè, ma non da me. Se ne vanno verso il Ponte Vecchio. Là pensano che si respira meglio’. La città vecchia fa paura. Di Taranto si ha l’idea dei suoi mali, non dei suoi mari. Idea copertina che non giova a nessuno. Taranto non è soltanto Ilva, non è soltanto crimine, non è soltanto rifiuti. Negli occhi di questa donna c’è il sale del Mediterraneo. Lo stesso che luccica sui palermitani. E quanto è sorella questa Taranto Vecchia a Palermo. Perdendomici, avvicinando i tanti giovani che la popolano – alcuni sghembi come gattini, altri dritti come corazzieri – leggo le insegne dei palazzi, le tracce del notabilato di un tempo, come a Palermo. Non sono soltanto le vestigia di un passato irrecuperabile, ma la testimonianza di una predizione infelice. Ma Taranto può essere altro. ‘Che ci devono venire a fare qua i turisti?’, domando alla signora. ‘A vederla’. E sì, a vedere, con l’occhio del cleptomane di colori, la città che fu più città delle altre, nelle Puglie. La città che custodisce i suoi Ori dimenticati, che non ha ancora un museo come si deve, che vorrebbe esplodere di una rabbia colta, di una indignazione sana, di un robusto rigurgito di coscienza classica e civile. Allora rifletto, con questa donna. ’Sarebbe utile farla vedere ai turisti, però’, obietto. ‘E perché?’. La pudica resistenza tutta pugliese non mi disarma. ‘Qua si può passeggiare per farsi un’idea’. ‘Un’idea di che cosa?’. ‘Del futuro. Sa come sarebbe bello vivere questa città?’. La signora annuisce e mi racconta di essere nata due vicoli più in là, allo scuro di una casa antichissima, di una lingua stretta, in una fessura che adesso tutti credono una ferita. Ma Taranto Vecchia non è una ferita: è un luogo dove dovrebbe echeggiare la musica di un pianoforte per accompagnare la città al riposo, dopo i tramonti rosati sui due mari blu. ‘Pure i tarantini non vengono sempre qua’, dice la signora. ‘Lo so, ma sbagliano’. L’errore provinciale e gretto della paura allontana gli altri tarantini da questo posto, ricacciati nella città dell’acciaieria o nelle poche zone residenziali. Sbagliano, quegli altri, perché qualcosa si muove. Sulla terrazza dell’hotel Akropolis si organizza un festival letterario e le parole sovrastano i fumi e dominano davvero i due mari. Ma la signora questo non lo sa, e anche questo è un errore. ‘Dovreste provare a organizzarvi, a Taranto’. La signora mi guarda manco avessi bestemmiato. Taranto è forse troppo vicina al Salento e alla Taranta, per vivere anche di cultura e di turismo, ma è pure così architettonicamente lontana da Lecce per non provarci. Ed è troppo lontana da Bari per cercare il suo aiuto. Allora il mondo, i marinai. ‘Quelli vengono, sempre. Sono bravi, ma pure loro non si fermano sempre. Mo stanno, mo non stanno’. E già, il destino dei marinai… girare di porto in porto, di città in città. ‘Noi stiamo col cuore allargato’, mi dice la signora, ma non capisco. La scruto, interrogandola. ‘Il cuore si allarga a furia di trattenere il fiato. Mo per una cosa, mo per un’altra. E quelli, i politici, tutti a dire sempre che Taranto è da salvare. Ma chi la vuole salvare?’. Non le do torto, né ragione. Certo è semplicistico pensarla così, è un malvezzo nazionale, non tarantino. E allora esco dal bar e incrocio una truppa di giovani sbracciati, scuri, belli. Sottoproletariato che mollemente vaga per i vicoli? Destini segnati? Mi auguro di no. Li seguo per i vicoli, ne inseguo le voci, le battute, gli sguardi che mi lanciano, di sottecchi, come impauriti da questo indagare silenzioso ai loro calcagni. Alla fine uno si ferma e mi abbranca, senza intimidirmi. ‘Com’è questa città?’, gli chiedo. E lui sorride. ‘Chissà che mi credevo che volevi fare’. Sorrido anch’io, mentre ci raggiungono i suoi amici. Discutiamo. ‘Siamo ‘na città che deve nascere ancora’. Quante volte deve nascere e morire, Taranto? Quante gestazioni e agonie? Quanto seme e quanta lacrima? Il cielo s’arrossa, la città s’infiamma, il blu del mare cede il passo al nero più profondo, illuminato dalle alte luci del porto. Be’, adesso penso quanto sarebbe utile, e forse anche bello, restituire questa placida genuinità mediterranea al turista, all’universitario, al politico sofisticato e al padrone sofisticatore. Restituire il colore dell’intelligenza curiosa di Taranto Vecchia all’occhio del mondo offuscato dalle bestemmie contro la città dei due mari.

4 pensieri su “L’occhio di Taranto (Un anno fa sul Corriere del Mezzogiorno)

  1. ottimo articolo.mi hai emozionato e credo che tu abbia messo in risalto una cosa:la storicita’ di un luogo,non la si deve perdere,mai.Ecco i vicoli,il dialetto e le preclusioni verso paure immotivate.Eppure quando io fotografo taranto vecchia,mi emoziono,mi perdo e annuso la storia .Ciao a presto.

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